Tendiamo a pensare che il dipinto mobile sia praticamente la superficie dipinta, solo colore, invece è una struttura composita, fatta dai seguenti strati sovrapposti:
Questa struttura a strati può essere vista con l’osservazione di una cosiddetta sezione stratigrafica. Immaginiamo la superficie di un dipinto, ad esempio il particolare mostrato in Figura 1. Con un bisturi si preleva un microcampione, di dimensioni 1-2 millimetri, nel caso specifico dalla zona indicata con la freccia rossa: una piccolissima scaglia che inglobata in una resina trasparente, sezionata ed osservata al microscopio a luce riflessa mostrerebbe gli strati costitutivi (Figura 2)
Figura 1
Figura 2
Con il passare del tempo dipinti e manufatti artistici, vanno soggetti a degrado.
In parte questo degrado è inevitabile, ed è una naturale conseguenza dell’alterazione dei materiali organici di cui l’opera è composta: i materiali resinosi delle vernici ed i vari materiali dei leganti pittorici (l’olio di lino, l’uovo, le colle e le gomme) sottoposti all’azione combinata di luce, calore e umidità, si ossidano e subiscono trasformazioni chimiche. Le conseguenze principali, a livello macroscopico, sono l’ingiallimento delle vernici (Figura 3), la formazione di crettatura (o craquelure) di uno o più strati (Figura 4), il distacco di scaglie con formazione di lacune (Figura 5).
La tela e la carta subiscono danni strutturali: tagli, strappi, perdite di frammenti. In più il degrado di tipo biologico, il cosiddetto biodeterioramento, ad opera di batteri, funghi (muffe) e insetti può essere devastante. In particolare, per i manufatti lignei, gli insetti xilofagi (alle nostre latitudini soprattutto il tarlo) possono portare al completo degrado strutturale (Figura 6).
Il degrado può essere prevenuto o almeno ritardato: mediante il controllo delle condizioni termoigrometriche dell’ambiente in cui l’opera è conservata; impedendo che sporco e polvere si depositino e permangano sull’opera, formando così uno strato in cui può iniziare ulteriore degrado.
Figura 3
Figura 4
Figura 5
Figura 6
L’acidità è una caratteristica intrinseca di molti materiali organici che costituiscono l’opera d’arte. Certi materiali sono già acidi nel momento in cui l’artista li sceglie per creare la propria opera (ad esempio l’olio di lino) mentre altri lo diventano nel tempo, ossidandosi per l'esposizione all’aria (come avviene perla Cellulosa di un foglio di carta o di una tela di lino o cotone).
In più le superfici di pregio artistico possono diventare acide anche per il contributo di agenti esterni: in primo luogo il contatto con inquinanti atmosferici gli ossidi di Zolfo e di Azoto che in combinazione con l’umidità atmosferica producono i corrispondenti acidi.
L'acidità delle superfici di sculture in marmo, pitture murali, manufatti cartacei, tele cellulosiche, manufatti metallici, legno, rappresenta un rischio a seconda del tipo di manufatto, dalla sua composizione e dalla intensità di questa acidità.
Lo strato preparatorio può essere composto di Carbonato di Calcio, sale molto sensibile all’acidità, o dal Solfato di Calcio, il gesso, meno sensibile.
I leganti organici possono essere acidi, come gli oli siccativi, la cera d’api e l'uovo, le colle animali (come la Colla di pelli e la Colla di coniglio) e le gomme vegetali (come la Gomma Arabica).
Per quanto riguarda i leganti sintetici quello acrilico è alcalino, mentre quello vinilico è invece acido.
Per le vernici finali dei dipinti e gli strati protettivi di manufatti di altro tipo i materiali costitutivi tradizionali sono le resine naturali terpeniche, di cui la Dammarela Gommalacca sono le più comuni: già acidi all’origine lo divengono ancora di più con l’ossidazione e l’invecchiamento. Ma si utilizzano anche materiali organici di origine sintetica: polimeri acrilici, chetonici, alifatici e a base di urea-aldeide; in generale questi materiali non sono acidi.
Certi pigmenti (sopratutto la classe dei Carbonati) e coloranti, in relazione all’acidità, possono subire trasformazioni chimiche che portano ad una modificazione o addirittura alla perdita del loro colore. Questo cambiamento solo in pochi casi può essere reversibile.
E’ indispensabile orientarsi verso più conservazione e meno restauro e, quando il restauro sia ormai inevitabile, indirizzarlo solo agli aspetti strutturali dell’opera, quelli attinenti alla vera e propria permanenza dell’opera nel tempo.
Anche la più attenta conservazione di un dipinto non è sufficiente a prevenirne indefinitamente il degrado, e ad un certo punto sarà necessario l’intervento di restauro che, anche se condotto nel modo più rispettoso possibile, comporta l’introduzione di nuova materia nell’opera, altera equilibri fisici e chimici e induce nuovi processi di degrado fino a rischiare di modificarla e con essa il significato e i valori associati.
L’operazione condotta più frequentemente nel restauro di un dipinto è la cosiddetta “pulitura”.
C’è un primo livello di “pulitura”, la “surface cleaning” anglosassone, che consiste nella rimozione del materiale accumulatosi sulla superficie, sporco e polvere, sostanzialmente in conseguenza della nostra incuria nei confronti del manufatto, come mostrato nelle Figure 7 e 8.
Un secondo livello di pulitura, consiste invece in un’azione ben più profonda. Si tratta della rimozione di vernici alterate, di ritocchi pittorici localizzati o più estesi (definiti allora ridipinture), come mostrato nelle Figure 9 e 10.
Figura 7
Figura 8
Figura 9
Figura 10
Il pH è una grandezza che esprime l’acidità. Questa grandezza può essere misurata con semplici strumenti, a patto che ci sia un mezzo acquoso; in altre parole: non è possibile misurare il pH di un solvente organico che non contenga acqua.
La scala del pH è un numero che va da 0 a 14, e deve essere letto in questo modo: valori da 0 a 7 indicano acidità, il valore 7 indica neutralità, valori da 7 a 14 indicano basicità, anche definita alcalinità.
La misura del pH può essere fatta con cartine indicatrici che variano colore a seconda dell’acidità della soluzione: per confronto con una scala cromatica di riferimento si può determinare il valore di pH. La più nota è la “cartina al tornasole”, ma vi sono tanti altri tipi, anche più sensibili perché composte da diverse zone reattive. Si tratta comunque di una lettura approssimata, che può essere influenzata dal fatto che la cartina indicatrice è vecchia e non funziona più correttamente.
E’ altrettanto semplice l’uso di un strumento detto pHmetro.
Questo strumento è idoneo alla misura del pH in soluzione. Il bulbo in vetro poroso all'estremità dell’elettrodo è la parte critica che potrebbe otturarsi in certe condizioni. Per questo non è consigliabile l’uso di questo pHmetro nelle soluzioni gelificanti, proprio perché particelle di gelificante potrebbero otturarne il vetro poroso del bulbo. Per i gel generalmente si utilizzano le cartine indicatrici, ma anche in questo caso è possibile una misura strumentale più affidabile: si può utilizzare un diverso tipo di elettrodo, messo a punto per l’utilizzo nel settore caseario. Questo elettrodo può essere sostituito a quello standard, da soluzione, sullo stesso corpo dello strumento, evitando così l’acquisto di un altro pHmetro.
Dopo la misura in un gel, l’elettrodo deve comunque essere lavato con cura dai residui di gelificante.
Nella conservazione e restauro dei Beni Culturali, la misura del pH ha una duplice funzione.
La misura poi si effettua bagnando la zona da testare con la minima quantità di acqua e ponendovi a contatto l’elettrodo, per la superficie pittorica di un dipinto, per la superficie di un foglio di carta antica.
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Aspetti teorici
Consideriamo il tipo più “semplice” di intervento, la pulitura della superficie, cioè la rimozione in ambiente acquoso dello sporco di deposito nel caso di un manufatto policrome, un dipinto ad olio su tela, verniciato con il più tradizionale tipo di strato protettivo, una vernice di resine naturali sciolte in un solvente.
Lo strato di vernice invecchiata è da considerarsi acido. Il modo più sicuro di portare acqua su una superficie di questo tipo è quello di dare a quest’acqua un pH acido, così che non possa esercitare azione ionizzante sul materiale resinoso, acido. L’azione ionizzante avrebbe questa conseguenza: il materiale resinoso diventerebbe più idrofilo e quindi avrebbe maggiore interazione con l’acqua. A pH neutro probabilmente si rigonfierebbe solamente, a pH alcalino inizierebbe a diventare anche solubile. In queste condizioni, pH neutro o alcalino, la nostra azione acquosa non sarebbe più semplice “pulire lo strato conservandolo”, ma avrebbe già un’interazione sfavorevole.
La cosa più importante che chiediamo alle soluzioni acquose per la pulitura è la costanza della loro azione, quindi dobbiamo riuscire a stabilizzare questo valore di pH. In termini chimici, si dice che la soluzione dev’essere tamponata a quel valore di pH.
Aspetti teorici
Per il nostro trattamento di un dipinto ad olio verniciato dobbiamo allora preparare una soluzione acquosa tamponata a pH acido 5.5, per affrontare la pulitura superficiale. Per la descrizione della procedura è necessario scaricare il file pdf.
Aspetti pratici
(a cura del Dott. Fabio Lo Presti)
La strumentazione: strumenti diversi, elettrodo da soluzioni, da solidi, di superficie.
Calibrazione del piaccametro: operazioni per la preparazione e la calibrazione dei pHmetri.
Raccomandazioni per il corretto utilizzo e la conservazione dello strumento.
"Si ringrazia il Dott. Stefano Volpin, Chimico dei Beni Culturali, Padova, che ha gentilmente fornito le immagini del dipinto, del microcampione e delle sezioni stratigrafiche"
P. Cremonesi. L’ambiente acquoso per il trattamento di opere policrome, I Talenti - Metodologie, tecniche e formazione nel mondo del restauro, 20, Seconda Edizione, Il Prato, Padova 2012.
P. Cremonesi – E. Signorini. Un Approccio alla Pulitura dei Dipinti Mobili, I Talenti - Metodologie, tecniche e formazione nel mondo del restauro, 29, Il Prato, Padova 2012.
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